Ginecologia e Ostetricia

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Marzo 10, 2021 ClaudioGinecologia0

Il vaginismo

Il vaginismo può essere considerato una alterazione sessuale consistente nella contrazione involontaria dei muscoli vaginali, tale da rendere impossibile la penetrazione. L’affezione , quando è presente, rende di difficile accettazione l’atto sessuale.

Si sostiene che tale affezione abbia origini psicologiche recondite, in quanto appare associata al dolore ed alla paura del rapporto.

Non sempre tale patologia trova giustificazioni per il dolore durante il rapporto sessuale(dispareunia), in quanto la fobia presente rispecchia la fase preliminare del rapporto, con il rifiuto ad iniziare lo stesso.

Talvolta la dispareunia in genere appare poco differenziabile dal vaginismo vero e proprio, ed uno dei problemi maggiormente ostacolanti la diagnosi è la scarsa conoscenza e la difficoltà di comunicazione con lo specialista.

La patologia in questione si manifesta in specie, come già esposto, con la contrazione involontaria dei muscoli vaginali, rendendo impossibile la penetrazione, ma spesso le donne affette da tale patologia rifiutano il rapporto sessuale a priori.

Ovviamente, tale patologia non può non avere effetti sul rapporto di coppia, in specie sul partner, che potrebbe colpevolizzarsi per il rifiuto della donna, talvolta addossando a se stesso la mancata riuscita dell’atto sessuale.

La colpevolizzazione del partner porta, in breve tempo, ad una riduzione del tempo di erezione fino alla difficoltà della erezione stessa.

La ricerca della causa del vaginismo non appare semplice, in quanto entrano in gioco più fattori, il primo dei quali è rappresentato dal concetto che la donna ha dell’atto sessuale. Spesso tale atto viene considerato come qualcosa da non praticare, e talvolta, tra le cause, si associano eventi pregressi, come atti di violenza subìti, che peggiorano il quadro.

Il rifiuto del sesso può anche essere messo in relazione con il terrore di iniziare una gravidanza non desiderata, e quindi con l’equazione che è meglio non avere rapporti sessuali invece di avere rapporti a rischio.

Entrano anche in gioco, in maniera preponderante, l’educazione familiare, gli insegnamenti e le paure trasmesse dalla madre. Per esperienza professionale, e fortunatamente in pochi casi, tale evenienza appare difficilmente superabile, in quanto appresa dalla donna nella fase di sviluppo adolescenziale, ed ormai insita, anche se erroneamente, nelle proprie convinzioni di vita.

Esistono però anche fattori superabili. Io stesso, da professionista con molti anni di esperienza, ho esaminato alcune donne che erano erroneamente convinte di essere affette da vaginismo. Tali donne avevano un imene molto rigido e particolarmente difficile da penetrare anche al dito esploratore durante la visita. In tali pazienti è sufficiente eliminare chirurgicamente l’ostacolo, cercando poi di effettuare una terapia psicologica riabilitativa, che le convinca della assenza di ostacoli e della possibilità di avere rapporti sessuali senza dolore.

Naturalmente, le considerazioni finora esposte, riguardano un apparato genitale senza pregressa patologia, o atti chirurgici pregressi, che ne possano alterare la funzionalità e quindi rendere difficile e dolorosa la penetrazione.

Infine, consideriamo anche la possibilità di ampliare” l’introitus in vaginam ” con piccoli interventi chirurgici, che consentano un ingresso facilitato durante l’atto sessuale.

Il consiglio da non dimenticare resta, come sempre, quello di rivolgersi allo specialista per tempo, prima che tale patologia diventi ancor più un ostacolo psicologicamente insormontabile, per consentire una diagnosi certa ed un indirizzo terapeutico preciso.


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Novembre 16, 2020 Giuseppe CenzatoOstetricia0

Il travaglio di parto. Come riconoscerlo

Dare pratici consigli, in medicina, può essere sempre utile.

In momenti di tensione, come quello del probabile inizio del travaglio di parto, bisogna essere sicuri di trovarsi realmente in questa fase, per non correre il rischio di recarsi in luogo di cura e sentirsi dire che il travaglio non è ancora iniziato e si deve attendere, spesso qualche giorno. Allora, focalizziamo la nostra attenzione sui momenti salienti che ci consentono di diagnosticare il travaglio di parto, che non è una malattia, ma una fase dell’evento parto.

L’utero è un muscolo involontario, ed il travaglio di parto è costituito da contrazioni muscolari uterine.

Come tutti i muscoli, quando si contrae aumenta la propria consistenza. Una donna, al termine della gravidanza, riesce, con una leggera pressione, ad affondare il dito sull’addome, in corrispondenza dell’utero : potete provare.

Il muscolo uterino, al di fuori della contrazione, consente la digito pressione. Se il muscolo è contratto, non sarà possibile affondare il dito nel muscolo uterino, in quanto la contrazione lo renderà duro come una roccia.

Le nostre osservazioni non coincidono con il fenomeno dolore, che risente di altri stimoli.

Il dolore non consente la diagnosi di travaglio di parto.

Orbene, tornando alla contrazione uterina, altro parametro importante è la ingravescenza del fenomeno.

I parametri da seguire sono la durata della contrazione e la pausa tra una contrazione e l’altra

Facciamo un esempio :
la donna gravida a termine, si accorge della contrazione uterina e riesce a riconoscerla  con i consigli appena forniti; deve poi cronometrare la durata della contrazione. Le contrazioni uterine , all’inizio del travaglio, durano pochi secondi, e la pausa tra una contrazione e la successiva è lunga, può essere di trenta minuti e più.

Se le contrazioni non si ripetono dopo la prima, o dopo le prime tre o quattro, si tratta di un falso travaglio di parto (quello stato che viene volgarmente definito “patenza”). Come se il muscolo uterino stesse facendo un po’ di allenamento, un atleta che si allena prima della competizione.

Ma se si ripetono, bisogna cronometrarle e annotarne con precisione la durata,  l’ora in cui avvengono e l’ora delle successive.

Se il travaglio è reale, le contrazioni avranno una durata sempre maggiore e la pausa, tra una contrazione e la successiva, durerà sempre di meno.

Esempio:
La contrazione dura 5 secondi, con una pausa di 30 minuti dalla successiva
Poi la contrazione dura 7 secondi, con una pausa di 18 minuti e così via.

Ho fatto un esempio di durata media, ma teniamo presente che  un travaglio di parto di una prima gravidanza  dura mediamente 6/8 ore. Quindi le contrazioni aumenteranno la loro durata, e la pausa tra una contrazione e la successiva tenderà sempre a diminuire, ma il tutto diluito nel tempo indicato.

Al termine del travaglio, potremo avere la contrazione della durata di 1 minuto con una pausa analoga. Ma a questo punto saremo molto vicini alla conclusione del  parto.

Questi parametri, da annotare con precisione, possono essere molto utili allo specialista con il quale vi relazionerete.

Inoltre, si potrà stabilire con maggiore approssimazione il momento di recarsi in luogo di cura, senza timore di essere rimandati a casa.

Il momento del ricovero lo stabilirà lo specialista che segue la vostra gravidanza.

Eviteremo in questo modo false valutazioni, come spesso di ascolta : “dottore la contrazione è durata mezz’ora”.

Poche notizie, precise, molta buona volontà da parte vostra, e affronterete con maggiore conoscenza un momento importante della vostra vita. Inoltre, tenervi impegnate durante questa fase vi distoglie parzialmente dalla paura e dalla tensione del momento. Con buona probabilità, si affiancherà, alla contrazione, un tipo di respirazione “dedicata”, ma di questo parleremo successivamente.

Affronteremo in seguito anche le fasi successive al travaglio di parto , come pure il trattamento del dolore durante tutto l’evento parto.

In bocca al lupo.


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Atrofia vulvo vaginale – ringiovanimento vaginale

Parliamo di una affezione cronica che interessa una buona parte delle donne in menopausa ed in perimenopausa : l’atrofia vulvo-vaginale, comunemente riferita dalle pazienti come “secchezza vaginale

La sintomatologia consiste nella secchezza vaginale, bruciore e prurito vulvo-vaginale, oltre alla difficoltà ad avere rapporti sessuali (dispareunia).

La motivazione di tale affezione va ricercata nel mutato equilibrio ormonale che interessa le donne in questa fase della loro vita. Si evidenzia quindi la necessità di trattare queste patologie nel modo più opportuno, ripristinando la normale elasticità e idratazione dei tessuti interessati. Per questa affezione esistono, naturalmente, “linee guida” internazionali per orientarsi sulle terapie farmacologiche e fisiche necessarie alla risoluzione.

I rimedi finora consigliati consistono nell’uso di lubrificanti vaginali, terapie ormonali locali e sistemiche, laserterapia in diverse modalità.

Una terapia recente, e molto promettente, riguarda la somministrazione locale di ossigeno molecolare. Quest’ultimo stimola la neo-angiogenesi tramite il rilascio del “fattore vascolare di crescita endoteliale”. Il microcircolo vascolare aumenta, ossigenando maggiormente le aree interessate.

Altro fattore determinante è l’applicazione di acido ialuronico. L’acido ialuronico è in grado di combinarsi con molecole di acqua , contribuendo a idratare cute e mucose.

Attualmente esiste la possibilità di trattare questa patologia con ossigeno ed ac. ialuronico combinati, rappresentando il metodo meno invasivo per la riduzione dell’atrofia vulvo-vaginale. Il sistema in grado di combinare questi due elementi si chiama “Caress flow”

L’applicazione viene eseguita mediante l’utilizzo di cannule molto sottili (micro cannule).

Gli studi sull’efficacia del trattamento , effettuati in donne dai 45 ai 66 anni di età, hanno dato ottimi risultati, con sole cinque applicazioni, riscontrando l’aumento della elasticità vaginale, la scomparsa del bruciore vulvo-vaginale e l’aumento della fluidità vaginale.

Durante il trattamento non sono stati rilevati effetti collaterali. Peraltro sono stati riscontrati miglioramenti anche della sintomatologia genito – urinaria (disuria, incontinenza, elevata frequenza urinaria).


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La manovra di Kristeller consiste in un aiuto meccanico sul fondo dell’ utero nella fase terminale del travaglio di parto, quando la parte presentata del feto, nella maggior parte dei casi la testa, si intravede tra i genitali materni.
In genere si pratica con la mano o il braccio dell’ operatore, che spinge sul fondo dell’ utero durante la contrazione uterina, in modo da non ledere ne la parete uterina ne il feto, perché quando la parete uterina è contratta appare più rigida. Qualche anno fa fu messa a punto una fascia gonfiabile, che veniva posta sul fondo uterino e gonfiata quanto bastava per creare un punto di forza posteriore sull’ utero. Ma i risultati non furono positivi, nel senso che non aiutavano la progressione della testa fetale nel canale del parto.

Tale manovra negli ultimi tempi è stata messa all’indice, un po’ anche demonizzata. Alcuni paesi europei sconsigliano di praticarla, ed in Italia non appare descritta nelle linee guida del parto spontaneo.
Tale mancata descrizione non consente di sapere come praticarla e con quali canoni.
Questa manovra ha consentito di aiutare l’ espletamento del parto spontaneo a molte gravide in travaglio di parto, in particolare nella fase terminale dello stesso, quando capita che sopraggiunga la diminuzione della forza contrattile del muscolo uterino ed il travaglio, nella fase espulsiva, possa arrestarsi. Un piccolo aiuto meccanico sull’utero (viene definita volgarmente “spinta”) può aiutare a trarsi di impaccio ed evitare uno strumento estrattivo o un intervento di taglio cesareo. Deve essere praticata da due operatori sanitari che abbiano una lunga esperienza in sala parto : il primo effettua la manovra ed il secondo controlla se la testa fetale progredisce verso l’ esterno. Deve essere breve, uno o due tentativi, se non c’ è progressione bisogna desistere. Se la manovra è breve è raro che ci siano effetti lesivi a carico della madre o del feto.
Si parla tanto di diminuire la percentuale di tagli cesarei e di aumentare quella dei parti spontanei. Ebbene, in alcuni casi, anche un piccolo aiuto meccanico può essere utile. La manovra di Kristeller, se effettuata nella maniera sopra descritta, in tempi rapidi e nei casi opportuni, sicuramente determina un ausilio alla forza contratturante del muscolo uterino, che talvolta, nei travagli di lunga durata, si contrae con minore efficacia, procurando l’ arresto del travaglio stesso.


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Cardiotocografia: Il tracciato cardiotocografico

Il monitoraggio cardiotocografico (CTG) rappresenta una metodica che permette di valutare il benessere fetale e, in alcuni casi, consente di effettuare previsioni sullo stato di equilibrio dell’ unità feto placentare.  In genere si esegue nel corso del terzo trimestre di gravidanza, ed in particolare è consuetudine eseguirlo dalle 37 settimane di gestazione in poi.  Si esegue mediante un apparecchio (cardiotocografo)  che consente il rilevamento continuo della frequenza cardiaca del feto e della contrattilità uterina. Il rilevamento di tali parametri avviene attraverso l’ applicazione di due rilevatori a gestione elettronica, il primo posizionato in prossimità del dorso fetale, in quanto la trasmissione del battito cardiaco fetale appare ottimale in questo punto, ed il secondo non lontano dal fondo uterino, che si trova nella parte alta dell’ utero. Talvolta è necessario far cambiare posizione alla paziente, farla ruotare su un fianco o sull’altro, per controllare se tale manovra permette di migliorare la trasmissione del battito cardiaco fetale e quindi della sua frequenza.

Per quanto riguarda la frequenza cardiaca fetale è possibile valutare la variabilità, le accelerazioni e le decelerazioni.

Per quanto riguarda le contrazioni uterine è possibile valutarne il numero, la durata ed il tono basale.

Tali parametri vengono evidenziati su carta a scorrimento e velocità predeterminata, in modo da formare scrittura su due linee parallele, differenziate per i valori rilevati.

La variabilità della frequenza cardiaca fetale in corrispondenza della contrazione uterina, durante il travaglio di parto, rappresenta un parametro importante per la valutazione del benessere fetale.

Esistono varie classificazioni da seguire per poter valutare questi parametri, nonché il collegamento tra i parametri stessi, e non appare utile in questa sede elencarle tutte.

Un parametro da non sottovalutare riguarda la lunghezza del tracciato, ossia il tempo di durata di tale esame, che non deve essere inferiore agli standard proposti dalle linee guida.

La valutazione, durante il travaglio di parto, ripetiamo, viene effettuata osservando il comportamento della frequenza cardiaca fetale durante la contrazione uterina, in modo da avere un resoconto valido sul grado di tolleranza del feto al travaglio di parto.

Ed inoltre, il parametro che interessa maggiormente riguarda la predittività dello stato di salute del feto, sia in travaglio di parto che al di fuori di esso.

Appare inoltre molto utile praticare un esame cardiotocografico alla paziente gravida al di fuori del travaglio di parto, allo scopo di ottenere le linee base del tracciato prima dell’ insorgenza del travaglio di parto stesso. Tale esame può consentire, in molti casi, di valutare in tempo un feto con minore tolleranza  al travaglio.

Generalmente si classificano i risultati di tale esame in tre tipi:

  • Il primo tipo riguarda la traccia cosiddetta “normale”, e non prevede ulteriori azioni prudenziali, ma solo la ripetizione del tracciato nei tempi previsti dalle linee guida.
  • Il secondo tipo riguarda la traccia cosiddetta “indeterminata”, e richiede una sorveglianza continua con una successiva rivalutazione.
  • Il terzo tipo riguarda la traccia cosiddetta “anormale”, richiede una valutazione più approfondita, la sospensione di una eventuale stimolazione del travaglio di parto in atto, e in alcuni casi viene consigliato l’ espletamento del parto in tempi rapidi.

L’esame cardiotocografico deve essere collegato alla paziente che lo esegue, e quindi, all’inizio del rilevamento, bisogna apporre i dati della paziente sul tracciato che viene prodotto. La data e l’orario del rilevamento appaiono automaticamente sui margini del tracciato stesso.

Al termine dell’esame cardiotocografico il tracciato deve essere refertato dal medico che lo esegue o che lo ha consigliato, o dal responsabile del reparto, o da chi ne fa le veci, con firma autografa.

Inoltre deve essere trascritto il percorso diagnostico e terapeutico che ne scaturisce. Deve essere conservato nella sua interezza e controfirmato dalla paziente, la quale ha prestato consenso informato prima dell’ esecuzione dello stesso.

L’esame cardiotocografico viene ritenuto fondamentale per la valutazione del benessere fetale, e rappresenta uno dei cardini essenziali nel tentativo di evitare una sofferenza fetale inaspettata.


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L’infezione da HPV (Human Papilloma Virus) è una infezione virale a trasmissione sessuale molto frequente nella popolazione maschile e femminile. La trasmissione avviene attraverso il contatto di cute e mucose. I piccoli traumi che possono avvenire durante i rapporti sessuali ne favoriscono la trasmissione. È possibile anche la trasmissione attraverso contatti genitali non penetrativi, e quindi, anche se il profilattico riduce il rischio di infezione, non lo elimina, in quanto il virus può infettare anche la cute non protetta dal profilattico. I papillomavirus, fino ad oggi identificati, che infettano il genere umano, sono in numero superiore a 100 genotipi, e tra questi circa 40 sono responsabili di patologie del tratto ano-genitale, sia benigne che maligne. I diversi genotipi di HPV si distinguono in genotipi a basso rischio e genotipi ad alto rischio di trasformazione neoplastica. 


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Novembre 26, 2018 Giuseppe CenzatoOstetricia0

Autore Dott. Giuseppe Cenzato  ed Altri Sanitari

Pubblicato nella rivista “Ospedali ItalianiPediatria e Specialità chirurgiche

Le seguenti considerazioni sono da considerarsi puramente indicative, e non rappresentano ” linee guida ” da seguire in caso di infezione virale in gravidanza. Il consiglio, che riportiamo come determinante, è quello di rivolgersi ad uno specialista per studiare il caso singolo, visto che ogni infezione crea una situazione diversa dall’ altra.

Sono trascorsi 65 anni da quando Gregg riportò per primo le sue osservazioni su una correlazione tra la rosolia in gravidanza e malformazioni fetali. Sono stati fatti passi enormi in questo campo, ma anche in campi affini, scoprendo molte infezioni in aggiunta alla rosolia. Lo scopo principale di questo lavoro è di rendere noti i recenti progressi.

Sono state omesse le comuni opinioni concernenti il meccanismo delle malformazioni, e si procede invece direttamente alla esposizione di qualche argomento di comune interesse nei vari gruppi di infezioni.

Rosolia

Malattia causata da un “rubivirus”, gruppo dei “togavirus”, il cui contagio si trasmette attraverso le goccioline respratorie che si dissipano nell’ aria. Altra forma di contagio diretto avviene attraverso le secrezioni nasali.

La rosolia congenita è servita a lungo come esempio di malformazione. Frequentemente una infezione cronica diventa stabilizzata nel feto, causando non solo anomalie nell’ embrione, ma dando anche origine a fetopatie.

Le caratteristiche cliniche della rosolia materna e fetale dovrebbero essere familiari a tutti gli Ostetrici ed ai Virologi, e non necessitano di un riepilogo in questa sede. Un punto che può essere meritevole di menzione è quello che la rosolia non può essere diagnosticata con il solo ausilio della sintomatologia clinica : la conferma virologica è sempre necessaria. Il rischio di malformazione fetale da rosolia materna,  contratta nel I trimestre di gravidanza,  è così alto che la gravidanza dovrebbe essere routinariamente interrotta.

Senza dettagliare i programmi concernenti il rischio fetale alle varie epoche di gestazione, la attuale tendenza derivata dalle più recenti acquisizioni potrebbe essere schematizzata come segue:

  • L’ infezione primaria materna apporta il rischio maggiore; durante le prime otto settimane di gestazione l’ embrione è più esposto al rischio che non durante le successive otto settimane.
  • Tra le 16 e le 20 settimane il rischio fetale è un po’ più grande che in gravidanze non esposte al rischio.

Direttive per la rosolia in gravidanza

Le principali direttive, basate su recenti acquisizioni scientifiche,  sono le seguenti .

Quando la madre è esposta al rischio della rosolia durante le prime tre settimane di gravidanza :

  • Valutare al più presto possibile il livello sierologico di immunità
  • Ripetere il test dopo due settimane, per osservare un eventuale innalzamento del titolo
  • Se la donna è siero negativa ripetere nuovamente il test dopo quattro settimane dalla esposizione alla malattia
  • In caso di rosolia dimostrabile ( con significativo titolo anticorpale ) consigliare l’ interruzione della gravidanza.
  • Se il primo test sierico viene eseguito dopo un lasso di tempo così lungo dalla esposizione alla malattia che gli anticorpi trovati possono indicare infezione corrente, invece di immunità precedente, o se il titolo anticorpale è molto alto, è consigliabile misurare il livelli di IGM rosolia.

Negli anni scorsi si credeva che la somministrazione di gammaglobulina alla madre potesse essere indicata quando l’ esposizione alla rosolia avveniva nel primo trimestre di gravidanza. Attualmente si è concordi nell’ affermare che l’ unica arma efficace nella prevenzione consiste nella vaccinazione preventiva, con la necessità di vietare la gravidanza nelle epoche immediatamente successive ad essa (spesso si somministrano contemporaneamente contraccettivi).  Naturalmente sempre che la vaccinazione non sia già stata praticata nell’ epoca adolescenziale, nel qual caso basta controllare lo stato anticorpale specifico.

Si deve ricordare comunque che la vaccinazione non sempre conferisce una immunità sufficiente, ed in genere ha una durata limitata nel tempo.

Citomegalovirus

Virus della famiglia degli herpes virus, la cui trasmissione avviene attraverso la saliva, la via aerea ed i liquidi corporei ( urina etc.)

La scoperta di questo virus, ed il suo studio approfondito, ha determinato la convinzione che esso possa provocare disordini in quasi tutte le branche della conoscenza medica. Ed inoltre, nella maggioranza dei casi, le infezioni che ne derivano sembrano avere un decorso asintomatico. Il virus comunemente produce una infezione latente, che può in seguito riattivarsi in condizioni di diminuita resistenza immunitaria.

Il maggiore rischio del CMV indubbiamente è l’ infezione uterina ed il danno fetale che ne può derivare.

Oggi si è a conoscenza del fatto che le infezioni da CMV sono più comuni persino delle embriopatie da rosolia. Risultano possibili embriopatie, fetopatie ed infezioni perinatali. La prima cosa da definire è che la donna in gravidanza che contragga per la prima volta il virus, ha il rischio di trasmettere una infezione congenita al feto nel 30-40% dei casi. Però, dei feti contagiati, solo 2o3 su dieci riporteranno conseguenze. Tale infezione può anche causare un aborto spontaneo se contratta nelle prime epoche di gravidanza o , se contratta dopo la metà della gravidanza, può portare conseguenze al Sistema Nervoso Centrale (spesso visibili ecograficamente) : inoltre possono manifestarsi ritardo mentale, sordità congenita e corioretinite.

In definitiva la viremia da CMV può essere riscontrata in circa il 4% delle donne alla stessa epoca di gravidanza. In metà di questi casi l’ infezione è probabilmente primaria. Alla nascita, i neonati di madri affette da CMV risultano infetti in percentuale variabile tra 0,5 e 2 %. Di questi, il 10% ha difetti persistenti.

In genere, tali anomalie risultano maggiormente presenti quando l’ infezione è primaria o ricorrente.

Spesso la trasmissione del virus CMV dall’ uomo alla donna avviene attraverso il seme, e l’ infezione virale può essere documentata attraverso la ricerca del virus nelle urine maschili. In presenza del virus lo sperma che passa attraverso l’ uretra maschile può essere contaminato passivamente dal CMV.

Alternativamente il CMV potrebbe replicarsi all’ interno dell’ apparato genitale maschile.

Direttive per il CMV in gravidanza

L’ infezione è per lo più asintomatica e perciò rimane celata.

Quando si scopre una infezione da CMV in gravidanza :

  • Se l’ infezione primaria avviene nelle prime 12 settimane di gestazione, documentata con titolo anticorpale, il rischio di un cattivo sviluppo fetale eccede di poco il 5%.

Tale rischio deve comunque essere  valutato per l’ indicazione alla interruzione di gravidanza.

  • L’ isolamento del CMV dalla cervice uterina spinge a non adottare ulteriori precauzioni.
  • Se l’ infezione si presenta verso il termine della gravidanza, l’ interruzione di gravidanza non è indicata.
  • Se l’ infezione compare a seguito di una trasmissione durante il parto il neonato non sarà infetto.
  • Una madre con infezione da CMV può allattare, sebbene talvolta il virus venga escreto nel latte. L’ infezione può essere trasmessa al feto ma non appaiono sintomi, in quanto il neonato risulta protetto da anticorpi materni.

In ogni caso, l’ infezione da CMV, contratta nelle prime 12 settimane di gravidanza, può portare, nelle percentuali sopradecritte, a ritardo di crescita intrauterino, disturbi dell’ udito fino alla sordità e ritardo mentale.

Nei casi in cui si esegue il test alla donna gravida per la prima volta a circa metà della gravidanza, può verificarsi il caso che le IgM siano negative e le IgG siano positive (malattia pregressa presente, malattia attuale assente). Nasce il quesito di quando è stata contratta la malattia, se prima o dopo la gravidanza. In tali casi si esegue il “test di avidità” che può chiarire il dubbio.

L’ Amniocentesi rappresenta l’ unico esame in grado di farci conoscere se il feto ha contratto o meno la malattia, identificando la presenza del virus nel liquido amniotico.

Non risulta attualmente attuabile una vaccinazione preventiva efficace.

Herper simplex

Esistono due tipi siero logicamente differenti di herpes virus :

  • Tipo 1, che nei bambini provoca prevalentemente il  mughetto (herpes orale), mentre negli adulti provoca lesioni per lo più localizzate alle labbra e alla bocca.
  • Tipo 2, più comunemente diffuso come infezione genitale, che è di norma primaria nell’ età tra i 15 e i 25 anni.

I due tipi reagivano in maniera incrociate nei test, ma attualmente , con la evoluzione della diagnostica sierologica, risulta possibile individuare la tipizzazione in maniera estremamente precisa.

L’ herpes genitale risulta presente nelle donne gravide molto più frequentemente di quelle non gravide, con un rapporto di 3 : 1.

Il rischio di infezioni nel neonato aumenta con l’ avanzare dell’ epoca di gravidanza al momento dell’ infezione genitale materna. Il rischio al neonato dai genitali materni è stato calcolato in circa il 3% se l’ infezione materna è stata contratta entro le 12 settimane di gestazione.

Per infezioni materne contratte dopo la 32 settimana il rischio di infezione del neonato si aggira intorno al 10%.

La quasi totalità delle infezioni neonatali avviene tramite il contatto diretto al momento del parto, con le secrezioni materne: il rischio di trasmissione da madre infetta è del 30-50%.

Ne scaturisce la necessità di evitare l’ esposizione del neonato alle lesioni erpetiche durante il parto, e preferire, in questi casi, l’ espetamento del parto mediante taglio cesareo.

L’ infezione materna primaria di herpes virus di tipo 2 avviene prevalentemente in età fertile, il che incrementa il rischio di viremia materna e di infezione uterina transplacentare del feto. Poiché il rischio di infettare il feto durante la nascita non può essere escluso nell’ herpes genitale di tipo 2, si valuta la possibilità di far partorire queste gestanti con il taglio cesareo.

Altra alternativa consiste nel favorire il parto spontaneo nel caso che la rottura delle membrane amnio coriali avvenga entro le 4 ore dall’ evento parto.

Direttive per l’ herpes Simplex in gravidanza

Durante il primo trimestre di gravidanza l’ infezione materna generalizzata comporta il rischio di malformazione fetale, secondo le percentuali sopra descritte nelle varie epoche di gestazione durante le quali si contrae. In ogni caso l’ infezione da HS non costituisce una indicazione generale alla interruzione di gravidanza.

L’ opportunità del parto spontaneo è comunque sempre possibile, con riserva, per le seguenti ragioni :

  • Nelle infezioni materne primarie, con viremie, c’è il rischio maggiore che il neonato sia già stato infettato in utero
  • Se la madre ha infezioni ricorrenti il neonato è probabilmente protetto dagli anticorpi prodotti.

Il livello immunitario del neonato si valuta alla nascita e spesso non corrisponde al livello immunitario riscontrato all’ epoca della possibile infezione intrauterina.

Comunque, la decisione riguardante il parto di una donna con sospetta o manifesta infezione da HS  si basa su tre punti  :

  • La ricerca del virus sulla cervice uterina, e/o sul liquido amniotico
  • Gli studi sierologici
  • L’ accurata anamnesi del caso per scoprire se si tratta di infezioni materne primarie o ricorrenti

Varicella ed herpes Zoster

Virus della famiglia degli herpes virus. Causa anche la varicella. Il contagio avviene attraverso il liquido delle vescicole.

Queste infezioni virali si riscontrano su circa 5/10.000 neonati al momento della nascita. Tale percentuale si allinea alla rara presenza di varicella nelle donne in gravidanza .

L’ herpes zoster è più comune, e gli anticorpi materni sono raramente sufficienti a proteggere il feto. Una infezione materna in gravidanza, contratta entro le 12 settimane, o anche dopo, produce un rischio molto basso di contagiare il feto, inquanto il neonato viene protetto dagli anticorpi materni. In caso di contagio le malformazioni che ne possono derivare riguardano gli arti, la sindrome di horner, la disfagia, la corioretinite, la meningoencefalite.

Solo nel caso di un contagio nel corso di un parto spontaneo, in presenza di vescicole materne in atto intorno al canale del parto, il neonato può contrarre la varicella, con tutte le conseguenze di tale patologia alla nascita.

Restano comunque bassi i tassi di rischio, sempre considerando la possibilità di una diagnosi sierologica certa, dalla quale può scaturire la decisione di una eventuale interruzione di gravidanza. Le infezioni gestazionali tardive possono portare a varicella congenita. In questi casi, sebbene la condizione neonatale sia spesso non preoccupante, essa può diventare maggiormente patologica se la gestante è infettata durante le ultime settimane di gravidanza.

 

 

Riassunto

L’ Autore ha preso in esame gli agenti patogeni virali più comunemente riscontrabili in gravidanze, e le frequenti malformazioni fetali che questi inducono.

Si precisa che le infezioni da HPV ( human papilloma virus) vengono descritte in altro paragrafo delle stesso sito web.


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